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“E poi venne la libertà” Intervista all’autore

INTERVISTA DI ANTONIO DI GIULIO CESARE A MAURO LI VIGNI IN OCCASIONE DELLA FIERA DEL LIBRO DI NAPOLI “RICOMINCIO DAI LIBRI” DEL 4 OTTOBRE 2019.

ADC: Mauro leggendo la storia scritta da te ed intitolata “E poi venne la libertà”  con protagonista Berto, un adolescente di tredici anni, ho trovato vari livelli di lettura. Credi sia un romanzo solo per ragazzi o rivolto anche ad un pubblico più adulto?

 

MLV: Se devo essere sincero io non ho mai creduto sino infondo a questa distinzione tra libri per ragazzi e libri per adulti. La storia della letteratura è piena di esempi in cui questi schemi sono stati messi in discussione e praticamente dissolti dal pubblico di lettori. Uno tra tutti è “Il piccolo principe” che ha affascinato milioni di lettori di tutte l’età nonostante sia stato pensato dall’autore come libro per bambini. In anni più recenti c’è stato un caso letterario simile in Germania che ha riguardato una piccola biografia di Hanna Arendt destinata a un pubblico di ragazzi e che ha avuto il suo maggiore successo tra gli adulti. Questo per dire che non è assolutamente prevedibile il destino che avrà un libro, sia esso per bambini o per ragazzi, oggi si parlerebbe di crossoveri per indicare questi libri che attraversano le generazioni. In genere queste distinzioni servono per collocare i libri sugli scaffali delle librerie e per dare ordine al mercato editoriale che altrimenti vivrebbe nel caos. Per quanto mi riguarda quando scrivo penso sempre di rivolgermi a ragazzini tra gli otto e quindici anni cercando sempre di rispettare le loro intelligenze, le loro sensibilità, i loro interessi aggiungendo qualcosa di mio, un punto di vista personale. Non uso mai un linguaggio troppo semplificato al punto da risultare semplicistico o peggio, sdolcinato. Cerco sempre di costruire una lingua che sappia dire più cose dentro strutture sintattiche facilmente intellegibili da quella fascia d’età ma pur sempre con un certo grado di difficoltà da affrontare, un pungolo alla crescita del vocabolario. In questo tipo di linguaggio comunque trovano piacere nella lettura anche gli adulti i quali, se sono attenti lettori, si accorgeranno anche dei sottotemi che caratterizzano il racconto. Un mio libro precedente dal titolo “L’incredibile estate dei fratelli Caravini” (Pietro Vittorietti Edizioni) conteneva una serie di lettere scritte in un italiano arcaico che a causa della loro complessità potevano essere comprese in profondità solo da un lettore esperto e di questo ne ero consapevole. Ma un libro è un oggetto sul quale ci si può tornare più volte nella propria vita, magari per rileggerne alcune parti e scoprire cose nuove, mai viste in occasione della prima lettura. Anche questo mio ultimo racconto tratta temi solitamente considerati un po’ un tabù per alcuni come nel caso della fucilazione che racconto. L’importante è trovare il modo giusto per raccontarli a un giovane lettore, cercando sempre l’equilibrio migliore tra la necessità di dire la verità e la leggerezza nella scrittura per evitare atmosfere troppo dark o addirittura pulp. “E poi venne la libertà” è certamente un libro per tutti come lo sono i libri di un autore a cui mi ispiro e che io ritengo uno dei migliori scrittori per l’infanzia e cioè Guus Kuijer. Ti invito a leggere il suo bellissimo “Il libro di tutte le cose” destinato a un pubblico di ragazzi ma che lascia incantati anche noi.

 

ADC: La narrazione è colma di riferimenti della cultura ebraica, in che modo questa ti ha influenzato nell’ispirazione del tuo lavoro letterario?

 

MLV: Il mio rapporto con la cultura ebraica ha origine lontane. Non saprei bene datare il mio interesse nei confronti di quello che riguarda quel mondo ma di sicuro ricordo esattamente dove ho visto il primo film di Woody Allen. Ero al cinema Tiffany della mia città e in quella sala che adesso è stata sostituita da una più remunerativa multisala, ho visto “Il dormiglione” che risale al 1973 ma che nelle sale italiane sarà uscito qualche anno dopo, quindi avevo circa sei anni. Ovviamente non potevo sapere nulla del suo regista e delle sue origine ebraiche ma da allora l’ho sempre rincorso guardando tutti i suoi film per il suo linguaggio allo stesso tempo profondo e irriverente. Da lì nasce la mia attrazione per l’umorismo ebraico di tradizione yiddish e piano piano ho cominciato a scoprire molta letteratura di autori ebraici che sanno fondere uno sguardo dolente sulle sorti del loro popolo a quello ironico. Senza un ordine preciso mi vengono in mente nomi come Bernard Malamud, Chaim Potock,  Isaac Bashevis Singer  e suo fratello Israel, che secondo me era più bravo, sino ad arrivare al più conosciuto e non molto amato negli ambienti ebraici ortodossi Philp Roth. Accanto a questi c’è una serie lunghissima di scrittori ebrei molto giovani e interessanti che ho amato moltissimo come per esempio Nathan Englander ed Eshkol Nevo. Tutto questo mondo, tutte le storie contenute in questi libri, tutti i film visti e rivisti e soprattutto il linguaggio usato per raccontarle mi è rimasto dentro e ovviamente ha condizionato nel tempo non solo le scelte delle mie letture ma anche, almeno spero, il mio modo di scrivere. Senza contare tutte le ricerche un po’ più formali fatte su quel mondo in tutti questi anni. Prima di accingermi a scrivere questo racconto però non nego di avere tentennato a lungo. Non mi sono sentito pronto per affrontare il tema della persecuzione degli ebrei per molto tempo, non volevo affrontarlo per timore di sbagliare non solo i riferimenti storici e quelli relativi alla vita quotidiana degli ebrei di quel tempo, ma per paura di fare scelte errate rispetto allo sguardo da avere su certe questioni delicate, su certi eventi così drammatici che hanno coinvolto milioni di famiglie e che ha prodotto sei milioni di vittime innocenti. Dovevo essere certo di avere il giusto atteggiamento di rispetto. Poi è arrivato Berto, il protagonista di questo romanzo, con la sua immaginazione fervida, capace di guardare anche gli eventi più drammatici in modo diverso, quasi ironico e allora mi sono convinto a cominciare a scrivere di lui. Così tutto quello che avevo dentro in termini di conoscenze e sensazioni è venuto fuori e in parte è confluito in questo libro che io amo in modo molto particolare.

 

ADC: La famiglia di Berto Treves vive l’esperienza della persecuzione nazi fascista rischiando in varie occasione la vita. Che emozione hai provato a metterti dalla parte di chi è braccato ed è costretto a fuggire?

 

MLV: Il lavoro di uno scrittore ruota tutto intorno alla capacità di essere sempre qualcuno di diverso, di mettersi nei panni di. La costruzione dei personaggi ti costringe a immedesimarti profondamente nella loro vita immaginandone i risvolti più nascosti, anche quelli che non metterai mai sulla pagina. Di contro ognuno dei personaggi dei miei libri hanno qualcosa che mi appartiene, c’è sempre un elemento autobiografico in ognuno di essi. Possono essere piccole cose, come un gesto o una parola detta da me in circostanze ormai lontane. Questo mi aiuta molto a costruirli anche se la descrizione perfetta di un personaggio è affare assai serio e difficile da realizzare, penso di dover ancora crescere in quel senso. Quando scrivevo di Berto ho messo su carta tutta una serie di sensazioni che avevo provato in diversi momenti della mia vita in occasione di letture sul tema della persecuzione ebraica in Europa. Emozioni che mi sono rimaste dentro vivide come se fossero state vissute solo poche ore prima. Per questo è stato facile per me scrivere di questo ragazzino costretto a vivere in clandestinità per un tempo così lungo. In più aver lavorato con il disagio psichico grave come psicologo per diversi anni della mia vita, mi ha aiutato molto a scrivere di quel mondo fatto di segregazioni forzate e qualche volta addirittura volontarie che si trovano negli ospedali psichiatrici. Io quel mondo l’ho vissuto dal di dentro essendo stato a contatto con il disagio mentale che porta queste persone ad essere percepite dagli altri come delle anomalie per tutta la loro vita. Questa esperienza professionale mi ha aiutato molto a ricostruire l’atmosfera del “convento che non è un convento” nel libro.

 

ADC: L’Italia ha un passato recente scomodo con il quale non si è mai fatto e voluto fare i conti. Secondo te una storia come “E può venne la libertà” può dare un contributo inteso come denuncia sociale mirata a comprendere meglio un periodo storico; oppure rimane semplicemente un racconto ad uso e consumo del suo pubblico di lettori?

 

MLV: Io volevo raccontare una storia che sapesse prendere in considerazione il punto di vista di un ragazzino ebreo costretto a fuggire dall’antisemitismo e questo mio intento è stato sempre l’unico a guidarmi durante tutto il tempo che ho dedicato al romanzo. Da adesso in poi cominciano altre riflessioni per me a partire da quello che tu mi chiedi. Io non so se potrà essere utile per riattivare percorsi di riflessione sulla storia recente italiana e sul montante razzismo che purtroppo si registra negli ultimi anni, anzi penso che la letteratura non abbia più questo potere, forse in passato, ma ai giorni nostri certamente no. La mia posizione politica ovviamente mi colloca molto al di là di quel confine xenofobo che caratterizza un certo strato sociale su cui alcune formazioni politiche affondano le proprie radici. A me interessa solo in questo momento, raggiungere quanti più giovani possibile nella speranza di poter favorire in loro la creazione di uno sguardo più consapevole sul razzismo, fondato sui valori della conoscenza e della solidarietà tra i popoli e le religioni. So che è un obiettivo ambizioso ma pur essendo consapevole di essere un autore pressoché sconosciuto mi piace pensare che un giorno questo mio libro arriverà sul comodino di un ragazzino che leggendolo lo troverà se non proprio illuminante magari semplicemente interessante da leggere.

 

ADC: Stea, la mamma di Berto, il papà Fonso e lo zio Milo sono costretti alla clandestinità ovvero a nascondersi, camuffarsi e utilizzare comunicazioni in codice. Quanto conta nei personaggi di questa storia la volontà di sopravvivenza e attaccamento alla vita?

 

MLV: Io credo che l’istinto di sopravvivenza esista solo a una condizione, che ci sia pure una fiducia nel futuro che lo sostenga. Senza questi due elementi anche il cosiddetto istinto di sopravvivenza rimane un concetto biologico sterile. Non si spiegherebbero altrimenti i tanti suicidi che nel mondo si verificano provocando un indicibile dolore in chi rimane. L’istinto è considerato come qualcosa più forte di ogni altra cosa e quindi dovrebbe essere più forte anche della volontà di farla finita ma l’esistenza di suicidi mette in discussione questo istinto alla stessa stregua di quello materno. Per quanto riguarda i personaggi del mio libro che hai citato preferisco pensarli sostenuti dalla fiducia in un futuro migliore, senza sofferenze e senza dolore ma soprattutto un futuro senza l’assillo costante della paura. Mi sembrano queste motivazioni più intense dell’istinto di sopravvivenza.

 

ADC: Spesso ogni lettore ricava un significato diverso dalla storia che legge, io ci ho letto un messaggio di speranza. Tu hai una tua interpretazione particolare che avresti piacere di condividere senza nulla togliere ai tuoi lettori?

 

MLV: In questo libro ho cercato di mettere due cose che mi stavano a cuore: il mio amore nei confronti della pittura di Marc Chagall e la risposta a una domanda che mi facevo da tempo. Le due cose ovviamente sono interconnesse fortemente in tutto il libro ma solo uno sguardo attento potrà coglierne i nessi. La domanda che mi sono sempre fatto è stata questa: “Come hanno potuto fare i bambini che hanno vissuto l’esperienza tragica e irrazionale della guerra mondiale a resistere e a non soccombere psicologicamente? Cosa li ha potuti aiutare nella loro quotidianità ad accettare le difficoltà che sembravano non avere fine?” Ci possono essere diverse risposte a questa domanda ognuna assolutamente legittima e sensata. Io preferisco pensare che i bambini si sono potuti salvare dall’orrore della guerra solo attraverso la loro carica immaginativa, la loro fantasia. Berto fa proprio questo lungo tutto il romanzo, usa la sua immaginazione – che ricorda molto da vicino i quadri di Chagall dove realtà e sogno si mescolano confondendo i loro rispettivi confini – per tollerare l’arroganza distruttiva della guerra, la violenza gratuita e le privazioni psicologiche e materiali che ne sono una naturale e insopportabile conseguenza.

 

ADC: Non sono sfuggite le bellissime illustrazioni di Michela Ameli; in che modo le sue illustrazioni rappresentano un valore aggiunto rispetto al testo scritto?

MLV: La collaborazione con Michela Ameli risale ormai a tre anni fa. Abbiamo fatto insieme già tre libri e non so più che aggettivi utilizzare per esaltare il suo lavoro splendido. Oltre ad essere una professionista attenta a ogni minimo dettaglio è una vera artista. Il lavoro dell’illustratore è assai complicato perché deve dire con le immagini qualcosa di diverso rispetto al testo scritto ma al contempo a quello stesso testo deve fare riferimento per trarne l’energia giusta da convogliare nelle immagini. I tre romanzi che Michela ha illustrato per me forse potevano vivere in solitudine, senza le illustrazioni. D’altro canto però senza le immagini di Michela tutto sarebbe stato più ordinario, prevedibile. Michela adesso è un’amica che mi aiuta con la sua arte a rendere più visibile il mondo che io cerco di costruire con le parole e ad essere sincero non credo di poterne fare a meno.